“Il segreto dell’esistenza umana non sta soltanto nel vivere, ma anche nel sapere per che cosa si vive” - F.Dostoevskij

Categoria: Politica Pagina 1 di 2

Il senso smarrito della Politica tra presente e futuro

Probabilmente molti lo avranno già detto: sono tempo caotici.
Il dibattito pubblico è dominato da temi che in altri tempi sarebbero stati al massimo definiti secondari.
Sono anni che viene denunciata l’assenza del primato della politica sull’economia e su altre rilevanti questioni, eppure la modalità alla base delle scelte, della ricerca di soluzioni, della selezione dei candidati è tutto un adattarsi a dei veri e propri “copioni” narrativi imposti, direttamente o indirettamente, dall’esterno.
La Politica però, nonostante tutto, è il campo dell’azione, il luogo in cui dare vita e forma alle idee. Il fatto che le classi dirigenti, le elite non si concepiscano più come tali e non esercitino pienamente la loro funzione di guida, se non nell’adesione a narrazioni preconfezionate da altri poteri, non cancella ciò che essenzialmente è la Politica.
Le ragioni storiche di questa deriva sono molteplici e non è sicuramente questo il momento per richiamarle ed analizzarle, dobbiamo solo prendere atto che non possiamo più chiedere ai politici di lavorare e lasciarci vivere senza assilli come se fossimo tutti gli abitanti di un condominio e loro fossero gli amministratori.
La politica è anche amministrazione del quotidiano, ma non si esaurisce in tale attività. Non è una semplice procedura burocratica.
Accettare che essa sia solo questo è il miglior favore che possiamo fare ai peggiori politici ovvero a coloro che si avvicinano alla cosa pubblica solo per ambizioni ed interessi volti ad arricchire le proprie tasche. Tuttavia non è solo colpa dei politici se la gran parte delle persone appaia e si senta lontana dalla politica. Qualche torto appartiene anche alla cosiddetta società civile, ai cittadini comuni.
Ci siamo lasciati convincere, senza alcun motivo valido, che le virtù e le capacità del politico siano altre da quelle che dovrebbero realmente essere ovvero visione, preparazione e capacità di programmazione, senso di giustizia e responsabilità, leadership, senso di appartenenza e spirito di abnegazione.
Ci siamo accontentati di abbassare il livello in cambio di una presunta libertà dalle responsabilità, di lasciarci trascinare sul campo di una polemica permanente senza mai entrare nel merito delle questioni e senza mai pretendere dai nostri rappresentanti un segno tangibile del loro passaggio nelle istituzioni a reale beneficio dei territori e dei cittadini. In questo scenario “l’uno vale l’altro” è diventata la regola ed è naturale che forze esterne alla politica possano avere gioco facile a determinarne i processi in nome dei propri interessi.
Toccherebbe, invece, alla Politica fare sintesi grazie ad alcune idee-guida chiare.
Dovremmo iniziare a considerare la possibilità di lasciarci alle spalle questa fase e guardare con interesse a quelle minoranze creative capaci di raccogliere le sfide di questi tempi caotici in cui sembra essere negata cittadinanza ad ogni idea basata sulla comunità e non dominata dal pensiero individualista.
In queste minoranze appassionate e coese risiede la forza viva e creatrice che potrebbe allontanarci dall’aridità calcolatrice di questi tempi in cui manca una rotta comune e si procede a rimorchio di contenitori vuoti solo per inerzia
L’unità nella diversità può essere possibile solo quando torneremo ad accettare che “uno non vale l’altro” e che il destino del singolo è sempre, in qualche modo, legato a quello degli altri.
La Politica, quella vera, è un’avventura collettiva.

Pubblicato su: Istituzioni24.it

Grazie COVID: ecco perché abbiamo capito che il “moderatismo” è un inganno

La pandemia e tutte le crisi conseguenti o che semplicemente COVID-19 ha reso palesi ci offrono una grande opportunità.

Non intendo riferirmi a quella vaga idea secondo la quale le difficoltà di questo lungo anno ci avrebbero resi migliori, anche perché i fatti hanno clamorosamente smentito il nobile auspicio, ma per la circostanza guardo alla certezza che qualsiasi crisi nella storia sia stata l’occasione per mutare paradigmi, ripartire, ricostruire e fare i conti con tutto quanto in precedenza rappresentasse ostacolo e freno.

Più volte e in diverse occasioni abbiamo tutti insieme potuto registrare l’incapacità da parte della nostra classe dirigente di essere almeno leggermente migliore delle comunità che in un modo o nell’altro è stata chiamata a guidare, eppure, la speranza che questo stato di cose mutasse in positivo non l’abbiamo mai smarrita. Non possiamo non guardarci allo specchio e iniziare a capire che, nel profondo, non tutto è colpa degli altri, dei cosiddetti “potenti”. Le ragioni di questa mediocrazia sono molteplici e come comunità non possiamo sentirci esonerati dall’essere chiamati in causa per il fatto di aver smesso di pretendere più trasparenza, ma solo parole rassicuranti. Probabilmente è questa una delle più grandi manifestazioni del predominio dell’egoismo: se scompare la chiarezza, ma predomina solo il racconto di ciò che vorremmo o in qualche modo ci si adagia sulle narrazioni più convenienti, allora tende a sparire la responsabilità e anche il senso di unità.

Non è più possibile procedere oltre con questa modalità. Non è più il tempo di accettare che tutto sia gestito dalle stesse persone che ci hanno condotto a questo stato di cose attraverso l’applicazione di metodi ed idee che hanno alimentato solo la forza, sempre più precaria, di poche conventicole composte da soliti noti con l’aggiunta di pochi “fortunati” adulatori delle nostre peggiori passioni.

Abbiamo un assoluto bisogno di chiarezza su un duplice binario, quello della nostra coscienza e quello che porta al nostro esistere comunitario.

Si ascoltano costantemente, nel frastuono e caos quotidiano del predominio delle notizie sulla pandemia, richiami all’essere moderati e responsabili, ma con molta pacatezza dovremmo iniziare a chiederci: la responsabilità e l’unità che ora da più parti s’invocano, sono le stesse che ci hanno regalato il governo dei mediocri? Generalmente quando una cura non funziona, la cambiamo. La fiducia nelle istituzioni è ai minimi termini, siamo comunità divise e la strada della vera unità (non di quella evocata ad uso e consumo di chi ci dovrebbe guidare in nome del bene comune) la possiamo ritrovare solo concentrandoci nel ricercare e pretendere costantemente la chiarezza. Parole e fatti di verità. Non narrazioni.

Ci lasciamo rassicurare dal richiamo alla moderazione, ma davvero ci sentiamo tutti violenti? Realmente crediamo di essere in gran parte dei facinorosi pronti a ribaltare il tavolo? Certo l’educazione è in gran parte un lontano ricordo e molto andrebbe fatto anche sulle minime regole di vivere civile, ma nei fatti siamo tutti moderati. La stragrande maggioranza non esce di casa per minacciare le persone o creare danni a cose di proprietà altrui o di pubblica utilità per cui questo dibattito sulla necessità della moderazione presenta qualcosa di sterile, noioso e inconcludente. L’unico risultato che può avere è quello di prolungare l’agonia, anestetizzarci e non focalizzare l’attenzione sui veri problemi e contribuire a tutelare chi detiene fallimentarmente posizioni di potere.

Facciamoci forza, dunque, e torniamo alla verità nelle parole e nei fatti. Troviamo il coraggio di cogliere le vere opportunità che le crisi ci offrono per abbracciare una grande visione di cambiamento e parole, magari nette e radicali, ma chiare.

Terzo Settore è anche uno strumento per ridurre la sfiducia dei giovani verso le istituzioni

Il Rapporto Giovani 2020 edito dall’Istituto Toniolo ha offerto, come sempre, una valida fotografia della condizione giovanile in Italia. L’importanza di questo studio aumenta in questo anno segnato dalla maggiore precarietà imposta dalla pandemia in corso.

L’ultima edizione del report evidenzia il trend che ritroviamo purtroppo anche in altre importanti pubblicazioni recenti (cfr.l’ultimo rapporto Caritas) ovvero sono in aumento i giovani in condizioni di disagio economico. 

Non è solo questo dato che dovrebbe farci preoccupare, ma anche il contemporaneo gap tra giovani che riescono ad accedere a buoni e completi percorsi formativi e giovani con una formazione più debole e meno informati.

Su questa differenza lo studio annuale dell’Istituto Toniolo si sofferma molto, evidenziando come fino a questo momento le politiche dedicate ai NEET (non occupati, né inseriti percorsi formativi o di istruzione) abbiano portato a scarsi risultati: non può non destare preoccupazione il fatto che solo il 16,3% conoscesse una misura come il Reddito di Cittadinanza. A prescindere dal merito del provvedimento, esso rappresenta uno dei più importanti strumenti varati per contrastare la disoccupazione e aiutare le fasce deboli della popolazione. 

La polarizzazione tra giovani con migliori percorsi formativi ed opportunità ed altri con bagagli e riferimenti culturali meno solidi, incide sulla visione che essi hanno del futuro e anche sulla loro adesione a percorsi di partecipazione ed impegno. Tra i primi prevale, infatti, la consapevolezza della necessità di partecipare e concorrere alla costruzione della propria comunità di appartenenza, nei secondi invece sfiducia verso il futuro legata ad una forte disillusione sul peso del proprio impegno e voto per un reale e positivo impatto sulla società. 

La pandemia ha ulteriormente acuito questa condizione in quanto un giovane italiano su tre, come rilevato dalle indagini, è convinto che l’emergenza influirà negativamente sul futuro, in particolare quello lavorativo. Emerge una sfiducia crescente nei confronti delle istituzioni (non solo quelle strettamente politiche) che difficilmente potrà essere recuperata finchè i principali attori politici continueranno a non rendersi conto della grave crisi in cui è piombata la classe dirigente della nazione. Non manca più solo la capacità di guidare i processi, ma anche di ispirare speranza e fiducia nel futuro ed è evidente che su questi presupposti il futuro non potrà essere roseo per la nostra comunità nazionale.

Da dove ripartire? 

Un’indicazione possiamo coglierla da ciò in cui giovani hanno più fiducia: volontariato, ricerca scientifica e strutture ospedaliere (sempre dati del rapporto dell’Istituto Toniolo). Al di là dello spettacolo urlante e divisivo che troppo spesso si è riversato sui media, i giovani hanno fiducia proprio in chi durante questa emergenza  è “al fronte” per combattere e vincere la “guerra” contro il coronavirus.

L’auspicio è che tutti coloro impegnati attualmente nelle tre “istituzioni” citate prendano coscienza dell’effettivo ruolo che essi possono avere per la costruzione e la maturazione di una classe dirigente diversa, consapevole ed in grado di elaborare una strategia volta ad affrontare con chiarezza e determinazione le grandi sfide che ci aspettano. 

Il tempo delle divisioni è finito, ma dovremmo lasciarci alle spalle anche finti propositi di coesione “di maniera”. 

Il terzo settore nella sua interezza poichè è presente in tutte e tre le “istituzioni” citate può farsi promotore e interprete di questo principale cambiamento. Può farlo chiedendo alla politica di essere ascoltato e rappresentato seriamente, di evitare il perdersi in conflitti ideologici, nello stimolare la partecipazione giovanile, nel proporre modelli alternativi di sviluppo sostenibile, nel tracciare e praticare nuovi modelli di welfare.

Lo chiedono i giovani e il futuro della nostra comunità nazionale.

Pubblicato su: Servizio Civile Magazine

La necessità di riscoprirsi comunità e l’importanza di avere una classe dirigente

L’emergenza e la pandemia hanno contribuito ad acuire molti dei diversi problemi della società italiana. Tralasciando l’ormai consolidata e triste tendenza ad inseguire narrazioni che poco hanno a che fare con la realtà che sembra colpire chi ha responsabilità di gestione e governo ad ogni livello, sembra proprio che il cosiddetto Paese coi suoi problemi concreti e le sue difficoltà debba essere sempre messo in secondo piano.

La classe dirigente, al netto dell’effetto sorpresa del primo periodo della pandemia che oggettivamente non era stata prevista, ha mostrato a grandi linee incapacità e impreparazione nel guidare i processi e pianificare una strategia adeguata ad affrontare una pronosticata seconda ondata dell’epidemia e la crisi socio economica che, purtroppo, ad essa si è accompagnata.

Sembra quasi naturale il dover essere rassegnati all’ineluttabile lentezza del sistema burocratico, a poche impostazioni metodologiche amministrative e politiche già fallimentari in più occasioni, all’assenza di visioni di ampio respiro per la nostra nazione. Da più parti, anche in quella che dovrebbe essere classe dirigente, si levano voci di protesta e richiamo alla grande opportunità offerta da questa grave crisi per “resettare” tutto e ripartire: ma quanta credibilità possono avere queste giuste osservazioni se ad avanzarle sono gli stessi che sino ad ora hanno quanto meno inseguito narrazioni errate? Gli stessi, per citare un esempio, che sono riusciti a far uscire bandi per potenziare le terapie intensive oggi a seconda ondata già pienamente in corso, nonostante sei mesi di tempo?

Per non parlare dei ritardi nella cassa integrazione (quante sono le persone ancora in attesa dei pagamenti da maggio?), del costante dimenticare il terzo settore, della pianificazione per la gestione di tutti i pazienti colpiti da altre patologie e non dalla malattia Covid-19?

Forse siamo davvero giunti ad una fase in cui come comunità dovremmo riscoprirci uniti, non solo nel combattere e vincere la sfida alla Covid-19, ma nel prendere la dovuta consapevolezza di dover cominciare un percorso di serio rinnovamento nella classe dirigente e rimuovere quei tanti muri di gomma che frenano le migliori energie ed intelligenze in ogni ambito e oltre la retorica delle narrazioni errate.

Una sana circolazione delle élite che contribuisca a dare nuova linfa e visione alla nostra comunità nazionale e guidandola con consapevolezza verso il futuro.

Pubblicato su: Il Riformista

Terzo settore sedotto e abbandonato

La prima metà del mese di settembre ha finalmente consegnato al Terzo Settore uno dei passaggi fondamentali della riforma relativa avviata con il “governo Renzi”.

Volendo sorvolare sui soliti ritardi legati alla burocrazia italiana, vero pilastro della conservazione del peggiore status quo, c’è da dire che la firma del Ministro Catalfo del decreto attuativo del RUNTS (Registro Unico Nazionale Terzo Settore) resta l’unico vero provvedimento dedicato al terzo settore emanato dall’inizio dell’anno.

È sempre bene ricordare (a beneficio dei tanti smemorati) che, da marzo ad oggi, tutti i rappresentanti delle istituzioni non hanno mai fatto mancare nei loro discorsi ed interventi pubblici i ringraziamenti alle tante anime del terzo settore, volontariato su tutti, per aver contribuito in modo decisivo a garantire la coesione sociale nei momenti più difficili della pandemia.

Più volte, anche da queste pagine, si è auspicato che alle parole seguissero i fatti e che finalmente il terzo settore fosse trattato realmente come uno dei pilastri della comunità nazionale.
Eppure, nonostante ore di riunioni, parole ed occasioni, di concreto si è visto ben poco. Nessun provvedimento è stato varato a sostegno delle tantissime strutture presenti sui territori e fuori dai circuiti di quelle che sono conventicole abituate a rappresentare solo i propri interessi (legittimi o meno che siano).

A mancare è stata la considerazione e la risposta delle istituzioni quasi ad ogni livello: l’elaborazione delle proposte per il recovery plan offriva una grande opportunità, ma tra i 587 progetti posti all’attenzione del Comitato interministeriale per gli affari europei diretto dal Presidente del Consiglio Conte non è possibile rintracciarne uno che abbia una visione strategica o promozionale del terzo settore.
Anche in questo caso siamo in presenza di fatti che smentiscono la narrazione di tutti questi mesi e palesano, ancora una volta, l’assenza di una classe dirigente consapevole.

L’unico a battere un colpo verso il terzo settore, in particolare verso il mondo del servizio civile, è il Ministro Spadafora che ha ammesso recentemente le difficoltà nel reperire le risorse economiche per garantire la conferma anche nel 2021 del numero di 40.000 volontari. Il Ministro proverà a recuperare i fondi necessari dal recovery plan.
Tuttavia se questi sono i presupposti allora non si può essere tranquilli per i tempi che verranno.

Il terzo settore non merita solo più e vera attenzione da parte delle istituzioni, ma necessita anche di maggiore rappresentanza.

Pubblicato su: Istituzioni24.it

Coesione e unità nazionale non possono prescindere dai percorsi di partecipazione e solidarietà

Gentile Direttore,
ci avviamo ormai al mese di agosto e, ancora una volta, dobbiamo registrare quanto siamo vittime di una bolla mediatica. Si sono scritte e pronunciate milioni di parole sulla gestione dell’emergenza e della conseguente crisi economica e, naturalmente, sul bellissimo universo del non profit.

Il terzo settore è stato il fiore all’occhiello di qualsiasi discorso pronunciato dal mese di marzo in poi dai rappresentanti delle istituzioni, la carta da giocare quando in preda ad euforia o sconforto si voleva far riferimento alle tante persone che, unitamente al personale sanitario, hanno affrontato la fase acuta della pandemia senza paura e non lasciando mai soli i cittadini. Elogi meritati e continui ai quali non sono però seguiti fatti concreti di sostegno da parte dei decisori politici che, nella gran parte dei casi, si sono limitati ad annunci e promesse di montagne in grado di partorire solo topolini.

È arrivata l’estensione del credito d’imposta, la possibilità di accedere ai finanziamenti destinati inizialmente alle PMI ed è stato aumentato il fondo per il sostegno al Terzo settore nelle regioni del Mezzogiorno, ma, in pratica, è tutto molto fermo e nei fatti ci si è quasi dimenticati totalmente il cuore del non profit ovvero le miriadi di piccole e medie associazioni tanto lontane dalla ribalta quanto decisive e fondamentali per la coesione sociale della comunità nazionale.

Ancora una volta sembrano prevalere gli interessi di piccole e grandi conventicole dedite alla tutela dei propri percorsi, ma che non possono essere più l’unico punto di riferimento al momento delle scelte strategiche del Governo e del Parlamento. Il prezzo che la comunità nazionale pagherebbe sarebbe troppo alto poiché non si tratta della possibile scomparsa di tante piccole realtà associative, ma del rischio di vedere svanire esperienze e percorsi di sostegno, ascolto e risposte ai bisogni delle persone che rappresentano un patrimonio non quantificabile ed inestimabile per l’Italia.

C’è qualcuno in Parlamento, nelle Regioni, in generale nelle istituzioni e nel mondo del non profit pronto a farsi carico realmente di tutto il terzo settore e non di una sola parte? La coesione e l’unità nazionale non possono prescindere dai percorsi di partecipazione e solidarietà.

Pubblicato su: Il Riformista

Il Governo dia risposte concrete al terzo settore

I fatti restano l’unico valido metro di giudizio. Almeno così dovrebbe essere.

Il Governo, Premier Conte in testa, ha più volte ribadito la necessità di potenziare il terzo settore riconoscendone la grande importanza in termini umani, sociali ed economici eppure alla prova dei fatti le buone intenzioni non hanno mai visto seguire azioni concrete.

Da marzo ad oggi abbiamo sentito parlare a più riprese di aiuti economici per il non profit che rischia seriamente di perdere molte tra le sue migliori esperienze: sono stato annunciati l’anticipo del cinque per mille, il sostegno ai volontari ed alle strutture, ma ormai arrivati alla metà di luglio, così come per molte altre risposte attese dai cittadini, alle parole non sono seguiti i fatti.

Addirittura le misure annunciate a maggio ed inserite nel decreto rilancio erano state cancellate dalla discussione in Parlamento e, grazie a numerose proteste, sono state recuperate in modo confuso nelle ultime ore con il forte rischio che gli eventuali provvedimenti siano meno efficaci di quanto annunciato.

A questo punto è possibile cominciare a sospettare che il Governo abbia per il terzo settore solo belle parole, ma poca reale considerazione poichè sistematicamente arriva a “dimenticarsene” alla prova dei fatti.

Dimenticate le piccole e medie realtà associative territoriali, dimenticati i milioni di volontari, dimenticati caregiver e centri di assistenza, dimenticati i tanti professionisti che operano con umanità al fianco dei più deboli, dimenticato il servizio civile.
Il governo e i rappresentanti dei cittadini nelle istituzioni dovrebbero liberarsi dalla sindrome dell’annuncio e cominciare a calarsi nel reale che, con la forza dei fatti, testimonia l’importanza per la coesione sociale dell’Italia di oltre sei milioni di volontari e quasi un milione di lavoratori del non profit. Donne e uomini fondamentali a cui è arrivato il momento di dare risposte vere.

Pubblicato su: Istituzioni24.it

Decreto Rilancio, ancora nessun risultato per il terzo settore

Gentile Direttore, è passato quasi un mese da quando il Governo ha varato il Decreto Rilancio, ma in termini pratici non si vedono risultati per il terzo settore. L’emergenza che viviamo impone sicuramente attenzione a numerosi aspetti poiché tante sono le criticità da affrontare eppure non credo sia possibile dimenticare una parte importante del Paese che, sin dai primi momenti della pandemia, ha offerto la propria opera gratuita per contenere e gestire le difficoltà.

Nelle conferenze stampa di ogni ordine e grado abbiamo ascoltato lodi continue alla grande attività del terzo settore eppure fino al “decreto rilancio”, come ricordato continuamente da molti rispettabili esperti e rappresentanti del non profit, nessuna misura era stata prevista per sostenere fattivamente chi garantisce la coesione sociale. Ad oggi non si registrano particolari effetti concreti rispetto a quanto previsto dall’ultima azione governativa e soprattutto nessuna voce sembra levarsi per sostenere le ragioni delle realtà che non appartengono alle grandi reti associative e che non potranno godere – quando sarà possibile – del credito d’imposta e dei prestiti bancari.

Si tratta dei volontari e degli operatori che a proprie spese hanno provveduto a comprare DPI, mettere in sicurezza aree, accompagnare anziani ed ammalati ai controlli medici, distribuire pacchi alimentari e che, in sostanza, hanno garantito ai Comuni ed alle istituzioni la possibilità di dare continuità a molti servizi ed attività rischiando anche di contagiarsi.

Queste persone hanno evidenziato con le loro azioni quanto sia concreto e fondamentale il principio di sussidiarietà e quanto il patrimonio di solidarietà ed esperienze di cui sono custodi sia una colonna portante per l’Italia di oggi e quella di domani. Ora la crisi aggredisce anche i loro enti che rischiano seriamente di scomparire.

Non un segnale, non un gesto concreto è stato compiuto fino a questo momento eppure dai contributi per l’affitto delle sedi e le loro sanificazioni, ai rimborsi per l’assicurazione dei volontari e le spese sostenute nel contenimento del contagio sarebbero molte le problematiche sulle quali poter intervenire. Il non profit crea valore sociale ed umano che non è fine a sé stesso e questo è ancora più evidente nelle migliaia di esperienze di periferia delle piccole e grandi città dove le attività ed i progetti sono spesso autofinanziate totalmente senza alcun supporto.

Naturalmente questa disattenzione non è solo del Governo, anche le regioni non sono da meno e la Campania su questo non fa eccezione nonostante vanti una grande tradizione del non profit che negli ultimi anni l’ha proiettata tra i territori in cui è cresciuta maggiormente la presenza del terzo settore.

Proprio in Campania ed in tutto il Sud dovremmo iniziare a valutarlo maggiormente e nella giusta modalità il ruolo del non profit iniziando a considerarlo come uno dei pilastri sui quali costruire un futuro diverso per le comunità. Tale rivoluzione copernicana potrà compiersi solo se le classi dirigenti saranno in grado di abbandonare le torri d’avorio per affrontare il reale.
Ricordarsi concretamente di volontari, operatori ed i loro enti del terzo settore potrebbe essere un primo passo significativo.


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Terzo settore, bene ‘Decreto rilancio’ ora tocca alle regioni del Sud

Gentile Direttore,
sin i primi giorni della pandemia, da più parti si è sentito echeggiare l’auspicio che questa crisi potesse essere un’occasione per migliorare quanto di negativo ci fosse nei meccanismi che accompagnano i processi della nostra comunità. Grande risalto, più che meritato, è stato dato al fondamentale ruolo svolto dagli enti del terzo settore: ad ogni conferenza stampa del Premier così come in tutte le comunicazioni, dirette social e interviste ai rappresentanti delle istituzioni non sono mai mancate belle parole per gli interpreti dell’Italia migliore ovvero i volontari che – ancor di più in questa difficile circostanza – hanno garantito coesione sociale e supportato le istituzioni nel tentativo di dare risposte ai bisogni dei cittadini.

Occorre però notare come le intenzioni siano rimaste a lungo solo parole e, dopo innumerevoli richiami e proteste dei vari rappresentanti del non profit, finalmente qualcosa si è mosso con il Decreto Rilancio. Non possiamo dimenticare che il non profit fino allo scorso febbraio ha rappresentato il 4% del PIL italiano grazie all’impegno quotidiano di quasi sei milioni di volontari e poco meno di un milione di lavoratori.

Il Governo, accolte le sollecitazioni, ha teso una prima mano a questa fondamentale parte della nostra comunità nazionale e sebbene sembrino essere totalmente sparite dai radar dei provvedimenti centrali le tante piccole e medie organizzazioni operanti sui territori, l’articolo 236 del decreto “Rilancio” sancisce come mai prima d’ora un’attenzione particolare agli enti operanti al Sud.

Bisogna riconoscere al Presidente di Fondazione con il Sud, Carlo Borgomeo, di aver tenuta alta l’attenzione sui rischi per il terzo settore specialmente nel mezzogiorno e al Ministro Provenzano di aver raccolto tali importanti segnalazioni, ma ora toccherà alle Regioni del Sud usare al meglio gli strumenti che il “decreto rilancio” offre per supportare le organizzazioni che animano l’universo non profit.

Il tempo scorre inesorabile e occorre inaugurare una nuova fase di cooperazione tra terzo settore ed istituzioni, lo meritano i lavoratori ed i volontari che hanno offerto l’ennesima grande prova di solidarietà ed impegno.

In Campania non sono pochi i volontari che hanno dedicato il proprio tempo a portare conforto, ristoro e supporto ai cittadini, specialmente i più deboli, costretti in casa dal lockdown e dal contagio. Spesso lo hanno fatto procurandosi autonomamente i DPI e utilizzando proprie risorse economiche.

È probabilmente arrivato il momento di dedicare loro l’attenzione che meritano. Non tutti gli enti potranno beneficiare del credito d’imposta o delle misure previste per rispondere legittimamente alle grandi organizzazioni.

Dal forum terzo settore regionale sono state avanzate alcune idee, così come dall’alleanza delle cooperative della Campania. Non ha fatto mancare la propria voce anche Stefano Caldoro – Capo dell’opposizione di centrodestra in Consiglio Regionale – che ha presentato un piano articolato di proposte per dare risposte concrete a tante tipologie di enti e alle necessità dei loro volontari, lavoratori e anche a chi sceglie di supportarli economicamente.

Spesso si è sentito ripetere in questi mesi che bisogna lavorare tutti insieme e proprio il terzo settore è il rappresenta un esempio per tutti coloro che vogliano fare squadra con le istituzioni ed unire le persone in nome di ideali ed obiettivi che superino la semplice logica della concorrenza.

Perché non avviare in Campania una nuova stagione di partecipazione ragionando sulle proposte presenti sul tavolo e occupandosi veramente di coloro i quali non dimenticano mai di tendere la mano per aiutare il prossimo?

Pubblicato su: Il Riformista

Oltre gli annunci, il reale

Sembra passata un’eternità, ma siamo a poco più di un mese dal lockdown e a poco meno di due mesi dalla “scoperta” dell’epidemia con i primi casi ufficiali di Codogno.

L’impatto della crisi sulla nostra nazione inizia a farsi sentire e dopo i primi momenti, tanto paradossali quanto particolari, in cui si cantava dai balconi aspettando la fine dell’epidemia, intravediamo ora i primi effetti di una crisi che – come detto da moltissime parti – rischia di colpire ancora più a fondo di quanto le tragiche innumerevoli morti abbiano già fatto.

Prima del 21 febbraio, la crisi economica iniziata nel 2008 e che investì pienamente l’Italia nel 2011 non era del tutto alle spalle e molte erano ancora le questioni irrisolte. La frase-auspicio “andrà tutto bene” non ci aiuterà più di tanto se ad essa non iniziamo a far seguire fatti concreti e la classe dirigente non si decida a farsi carico pienamente della responsabilità e degli oneri che le spettano. Magari qualcuno storcerà il naso e griderà ad un populismo radicale, ma le posizioni politiche di parte sono “successive” a questo ragionamento..

Non basta, purtroppo, pensare a come bloccare il contagio e frenare l’epidemia o, almeno, questa fase è superata, ma occorre rendersi conto responsabilmente che il reale è molto più complesso ed è costituito anche dai milioni di italiani che fortunatamente sopravviveranno al virus e vedranno cambiare la propria vita non in un nome di un nuovo modo di intenderla o di un alternativo paradigma economico, ma per perdita di reddito spesso anche abbastanza consistente.

Aumenteranno le richieste di sussidio e assistenza, aumenteranno i disagi per le persone e le famiglie abituate a convivere con problemi di salute, potrebbe aumentare il rischio di criminalità.

In assenza di valide strategie di contenimento della crisi economico-sociale non andranno in difficoltà solo le aziende, le imprese, i commercianti e il cosiddetto popolo delle partite iva, ma anche tutte le organizzazioni del terzo settore che a vario titolo hanno contribuito a costruire quel welfare di prossimità che, specialmente, negli ultimi anni è stato in grado di dar corpo alla sussidiarietà e a rispondere – nonostante la mancanza di risorse – ai tanti bisogni e alle numerose necessità dei territori grazie solo al contributo libero e personale dei singoli volontari.

Non possiamo, per quanto sia bello constatarne la presenza e registrarne l’efficacia, affidarci alla spinta solidaristica del momento perché quando cominceranno a venir meno le risorse dei privati cittadini molte iniziative si fermeranno unitamente a tante piccole realtà che fino ad ora, dalle periferie delle grandi città al più piccolo comune dell’entroterra, erano state un vero presidio di garanzia sociale.

Oltre la narrazione e gli annunci occorre immergersi nel reale ovvero prendere e applicare pienamente decisioni in grado di far letteralmente “sentire” la presenza ed il relativo peso dei provvedimenti.

Non si arriva a chiedere una “visione” ai rappresentanti della classe dirigente (sarebbe troppo) e nemmeno di usare termini utili buoni ad alimentare “racconti” e l’ego di ghost-writer più o meno in gamba, ma di andare oltre questi metodi. Di farsi realmente carico delle responsabilità, di applicare una strategia e iniziare a superare anche i lacci burocratici dietro i quali, per troppi anni, si sono a turno arroccati quasi tutti i decisori di ogni ordine e grado per difendere interessi di parte o peggio ancora per lavarsi le mani delle tante storture di questo Paese. La burocrazia a certi livelli è un male e crea molti danni.

Inutile dissertare e ragionarci: i ritardi del nostro sistema paese (anche rispetto a tutti gli altri stati colpiti dall’epidemia) nell’erogare primi sostegni economici a persone ed imprese sono sotto gli occhi di tutti e, se lo schema è questo, non c’è da essere sereni per l’immediato futuro. Più che pensare che tutto cambierà dopo il Covid, dovremmo credere fortemente che tra le opportunità vere che la crisi offre, c’è sicuramente quella di superare i dettami infiniti della burocrazia e iniziare a operare lasciando “racconti” e “narrazioni” alle loro dimensioni. Ci vogliono coraggio e responsabilità. Ci vuole una classe dirigente consapevole e che si attui il primato della Politica.

Occorre uscire da questo Grande Fratello, presto saranno in molti a non voler e poter più guardare questo show durato fin troppo.

Pubblicato su: Istituzioni24.it

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